A tutto Capello: "La mia infanzia, la lite feroce con Gullit e l'assurdità di Roma" (2024)

L’ex allenatore del Milan e oggi opinionista a Sky Sport Fabio Capello ha rilasciato una lunga intervista al Corriere della Sera.

Fabio Capello qual è il suo primo ricordo?

«È legato al mio paese, Pieris, dove vivevamo in sei con lo stipendio di mio papà, maestro elementare».

Erano gli anni del Dopoguerra, anche la sua famiglia come molte altre ha conosciuto le ristrettezze economiche?

«Non erano certo anni di agiatezza, abitavamo in una casa popolare. Mia sorella dormiva a casa degli zii perché non c’era posto per tutti».

I suoi svaghi da bambino?

«Avevamo solo il campo da calcio. Poi, d’estate, i bagni nell’Isonzo, con i tuffi dal ponte sulla ferrovia».

Che tipo era suo papà Guerrino Capello?

«Era nato in Ungheria perché i nonni si erano trasferiti là nel 1915. Da capitano di artiglieria non aderì alla Repubblica di Salò, così fu fatto prigioniero. Ha vissuto l’orrore di sei campi di concentramento».

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Cosa le ha raccontato di quella traumatica esperienza?

«I pacchi di cibo che mia mamma gli inviava non sono mai arrivati a destinazione. È sopravvissuto perché nell’ultimo periodo si cibava di patate. Mi ha detto che, fragili come erano, persino ridere poteva essere pericoloso, quasi fatale».

L’insegnamento che le ha trasmesso?

«Avevo 16 anni e da qualche mese mi ero trasferito a Ferrara per giocare nella Spal. Contemporaneamente studiavo all’istituto per geometri e per comunicare dovevo mandare due lettere la settimana a casa. Stavo attraversando un momento di spaesamento e avendo ridotto la corrispondenza mio padre se ne accorse. Un giorno uscii da scuola e me lo ritrovai davanti. Pensai “chissà come è arrabbiato”».

E invece?

«Mi disse una sola parola, “provaci”. Quel monito mi ha guidato per tutta la vita, per affrontare ogni sfida con coraggio».

Ferrara è stata la sua prima finestra sul mondo?

«In quella città ho conosciuto mia moglie Laura. Viaggiavamo entrambi sullo stesso autobus per andare a scuola, lei frequentava le magistrali. Era una chiacchierona e pensavo “questa proprio non la sopporto”. Ci siamo sposati nel 1969 e non ci siamo più lasciati».

Dalla provincia spicca il volo. Il gol di Wembley è il punto più alto della carriera da giocatore?

«Quella rete del 1973 che ha propiziato la prima vittoria dell’Italia in Inghilterra, ebbe anche un significato sociale. La dedicai ai ventimila camerieri presenti allo stadio, co-me i nostri connazionali erano stati ribattezzati».

Quando ha conosciuto la famiglia Berlusconi?

«Nel 1976 quando arrivai al Milan e cercavo casa, Paolo mi mostrò le abitazioni di Milano 2. Erano bellissime, ma lontane da Milanello. Così presi casa a Legnano che per 24 anni è stata la mia base».

Il suo rapporto con Silvio invece?

«È sempre stato ottimo, da quando da neo presidente del Milan mi fece diventare assistente di Liedholm e poi suo sostituto nel 1987 nelle ultime sei gare di campionato. Mi fece sostenere dei test psicologici con dei cacciatori di teste. Tirò fuori gli esiti quando, dopo Sacchi, mi affidò la panchina della prima squadra».

Agnelli e Berlusconi sono due icone del Novecento. Affinità fra loro?

«L’Avvocato arrivava, faceva battute fulminanti e ci salutava. Era circondato da un’aura di superiorità. Berlusconi invece era carismatico e accessibile allo stesso tempo».

Per il Cavaliere ha lasciato il Real Madrid dopo un anno?

«Dopo i successi con il Milan, mi chiamò il presidente Sanz che mi fece tre anni di contratto. Il Real è stata un’esperienza unica, annusi l’aria e capisci di essere nella prima squadra al mondo. Dopo aver vinto la Liga, arrivò la telefonata di Berlusconi. A malincuore a Sanz dissi “mi deve lasciare andare, a quell’uomo devo tutto”».

Come ha vissuto lei, schivo, gli entusiasmi dell’ultimo scudetto della Roma?

«Sono stati cinque anni favolosi, anche se vissuti da un’angolatura particolare. Alla ricerca della migliore sistemazione, son rimasto nell’appartamento a Mostacciano, con vista sul raccordo anulare. Ma i festeggiamenti li hanno fatti solo i tifosi».

In che senso? Capello specifica:

«Ero abituato, negli altri club, a feste pazzesche fino alle 5 del mattino, con le famiglie. Invece la cosa assurda fu che non si organizzò una cena a livello societario. Quella sera andai al ristorante per i fatti miei. Quando ci fu l’evento al Circo Massimo, avevo già comprato i biglietti per uno dei miei viaggi avventurosi e, offeso, partii».

Ha avuto l’onore di allenare la Nazionale di chi ha inventato il calcio…

«A Londra sono stato benissimo, vivevo a Knightsbridge, ho visitato i migliori musei. Dopo il mondiale in Sudafrica da cui uscimmo per il gol-non gol di Lampard con la Germania, eravamo già qualificati agli Europei… peccato non essere rimasto ma la frattura con la federazione sulla fascia tolta a John Terry era insanabile».

Cosa avvenne?

«Dopo che Terry era stato accusato di aver rivolto insulti a sfondo razziale nei confronti di Anton Ferdinand, la federazione mi comunicò di aver già deciso di togliergli la fascia da capitano. Ero contrario perché la scelta avveniva prima del processo al giocatore e costituiva un’invasione nella mia sfera di competenza. Per inciso poi Terry fu assolto».

Sua moglie l’ha sempre seguita?

«Solo quando ho guidato lo Jiangsu non è venuta. Ci sentivamo ogni sera alla mezzanotte cinese, quando in Italia
erano le sei del pomeriggio. Ci salutavamo con il magone, dopo neanche un anno ho dato le dimissioni».

Tra tutte le leggende che ha allenato scelga un nome.

«Ronaldo il Fenomeno».

Il litigio feroce?

«Con Gullit quasi venni alle mani, non ricordo se per un ritardo. Sono rigido nel pretendere il rispetto delle regole, ai miei giocatori dicevo di trattare gli inservienti come volevano che i loro genitori venissero trattati dagli altri».

Cosa le manca? Capello chiude con un ricordo:

«Il mio grande amico e collaboratore Italo Galbiati, scomparso di recente».

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